Riflesso in una pozza.

Caricammo l’ultima cassa di mozzarelle sul van refrigerato, quando arrivò un operaio del caseificio seguito da altri quattro.
-Il capo ha detto di venire in ufficio, deve parlarti-.
-Di cosa? –
-Non lo so, mi ha solo detto di venire a chiamarti- rispose, mentre gli altri quattro gli si affiancarono.
Non avevano una bella faccia, neanch’io, se è per questo, ma il mio era un fattore puramente estetico, loro invece avevano subito fatto accendere la lampadina con la scritta “guai” nel mio radar.
– Guarda, adesso sarei un po’ di fretta, dopodomani tanto torno che devo venire a caricare di nuovo e parliamo -.
Il tizio si fece avanti e gli altri quattro si disposero a cerchio attorno a noi.
-Non hai capito. Le cose sono due : o vai in ufficio o vai in ufficio-.
disse guardandomi fisso negli occhi mentre gli altri ci si stringevano intorno.
Guardai Fabio, che sussurrò – che cazzo hai combinato, Gi? Questi stanno incazzati -.
Feci spallucce, non avevo idea di cosa non andasse, ero partito la mattina presto da Roma per andare a Marcianise a caricare le mozzarelle che rivendevamo all’ingrosso nei negozi e nei ristoranti della capitale, ed ero passato dal paese a prendere il mio amico per farmi compagnia, quindi contavo di riportarlo indietro e rientrare a Roma in un tempo ragionevole.
-Ok, allora andiamo -.
Pensai a qualche proposta o qualche offerta speciale da riferire al mio principale, una volta arrivato a Roma.
Fummo “scortati” fino alla porta, poi entrammo.
Il “capo” aveva sui 28 anni, più o meno, era il figlio del principale e aveva la tipica aria da figlio del principale, una camicia bianca e stava contando delle banconote. Ai lati della sua scrivania c’erano altri due operai che ci fissavano torvi con le braccia conserte.
-Buongiorno -.
Silenzio.
Il tizio alzò gli occhi e iniziò a fissarmi, poi disse con voce insolitamente bassa per il tremolio che se ne avvertiva, la voce, insomma, di chi sta cercando di tenere a bada il nervosismo o la collera :
– Ok, uaglió, adesso però paghi, sennò oggi qua ti fai male. È chiaro? –
Non capivo.
-Ma io ho già pagato -.
Il tizio si alzò di scatto dalla sedia gettandomi in faccia una manciata di banconote svolazzanti.
-ALLORA VUOI PIGLIARMI PER IL CULO! QUESTE SONO FALSE! ADESSO MI PAGHI COI SOLDI VERI SENNÒ DA QUA OGGI TE NE VAI ORIZZONTALE! HE CAPIT? -.
Raccolse le banconote serrandole nel pugno e me le sbatté sotto al naso.
Insieme al pugno.
Non colpì fortissimo ma abbastanza da far capire cosa sarebbe successo se non fosse andata come doveva.
A quel punto mi incazzai anch’io, perché davvero cadevo dalle nuvole ed ero sicuro di non aver fatto nulla di male, però noi eravamo in due, e lui aveva tutto il personale pronto ad avventarcisi contro, o perlomeno tutti quelli che, al momento, si trovavano lì, compresi i cinque “accompagnatori” che durante la discussione erano entrati in ufficio.
-Guarda che ti stai sbagliando- mormorai, ma già avevo capito cosa era probabilmente successo.
Ero furioso.
Il mio datore di lavoro era stato compagno di detenzione di mio padre per molti anni.
E quando ero uscito io di galera, deciso ad andar via per sempre da Milano, sapendo che cercavo lavoro si era offerto di assumermi nella sua ditta di ingrosso latticini a Roma.
-Ti conosco, hai già lavorato per me. E poi mi fa piacere dare una mano al figlio di un vecchio amico- aveva detto.
Così mi aveva detto.
-Mi fa piacere darti una mano.
Tuo padre è un buon amico -.
Proprio così aveva detto.
Ma certo.
La mano.
La solidarietà maschia tra galeotti, il buon cuore degli uomini vissuti, la rude bontà.
Ma certo.
-NO, QUA CHI SI STA SBAGLIANDO SEI TU! ADESSO MI PAGHI COI SOLDI BUONI! –
Gli altri continuavano ad accerchiarci, io e Fabio ci mettemmo automaticamente schiena contro schiena in modo da riuscire almeno a coprirci vicendevolmente in caso le cose degenerassero.
Non resistetti e sbottai anch’io
-STAMMI BENE A SENTIRE, IO SONO UN DIPENDENTE, I SOLDI MI VENGONO DATI IN SEDE, PER PAGARTI, CHE CAZZO CREDI, CHE MI METTA A CONTARLI O CONTROLLARLI? SAI BENISSIMO PER CHI LAVORO, SE SEI SICURO DI QUEL CHE DICI, CHIAMALO E CHIARISCI CON LUI! SENNÒ CONTROLLIAMO IL RESTO DEI SOLDI CHE HO E VEDIAMO -.
Non volevo crederci ma allo stesso tempo SAPEVO che invece porca puttana.
Fabio mi mise una mano sulla spalla sussurrando – Gì, statt zitt, mannaccia a marônn, che sennò oggi questi ci “stroppéano”.
Mi tremavano le mani, la voce, credo mi tremasse anche il buco del culo, quella gente non scherzava.
Sudavo.
Presi il marsupio con dentro il resto dei soldi che servivano per rifornirsi in altri caseifici della zona e iniziai a metterli sulla scrivania, mentre il tizio li passava sotto il lettore ottico.
Alla fine metà dei soldi risultò falsa.
Presi indietro le banconote false e pagai coi soldi autentici.
Ero incazzato e spaventato allo stesso tempo. Sapevo di non aver fatto niente, ma sapevo anche di essere l’unico a saperlo, inoltre mi dispiaceva per il mio amico che era venuto per farmi compagnia e ora si trovava in una situazione del cazzo.
Non sapevo cosa fare, continuavo a chiedermi perché cazzo non fossi stato almeno avvisato. Oggi poi, sorridendo, penso che stupido com’ero a quei tempi, non escludo che avrei ache accettato. Ma forse il problema sarebbe stato proprio questo, invece chi fa inconsapevolmente certe cose è più disinvolto, non ha alcuna paura né nervosismo. E, soprattutto, non devi pagarlo.
L’amicizia.
Il buon cuore.
“Mi fa piacere aiutarti”.
Mhm.
Il tizio disse – Ho capito cosa è successo, e forse non è colpa tua, ma dici al tuo capo che a te qui non voglio più vederti. Chiaro? – mentre per incanto sulla scrivania apparve una gigantesca pistola a tamburo. Era color acciaio e con una canna lunghissima.
-Chiaro – risposi guardando il pavimento.
Chiaro.
Cane non mangia cane, se può prendersela con il gatto e poco importa la vera responsabilità, l’importante è digrignare i denti e salvar la faccia.
Altro che codici d’onore.
I codici d’onore sono nei film.
E le amicizie cementate dalle sbarre e i duri dal cuore tenero e i cazzi e i mazzi.
Tutte stronzate.
Fummo “scortati” nuovamente fino al Van dagli stessi tizi di prima. Tenevo la nuca e le spalle tese come se avessi un tondino d’acciaio nella spina dorsale. Aspettavo che iniziassero a pestarci da un momento all’altro e l’attesa mi rendeva rigido come fossi di cemento, una volta partito il primo pugno, schiaffo o calcio poi mi sarei rilassato, non perché le botte non facciano male, eh, ma almeno sai che il ballo è iniziato e, paradossalmente, coprirti, ripararti è meno sfibrante dell’attesa che invece è un’eterna caduta senza mai sfracellarti al suolo, che comunque vedi avvicinarsi.
Non successe.
Partimmo.
Alla prima cabina mi fermai e telefonai al mio capo.
Senza scomporsi mi disse di tornare indietro.
-E a Capua non vado? -.
-No, no. Lascia stare. Torna qui. Poi me la vedo io, con quei signori -.
Fu la conferma ai miei sospetti.
Gli amici.
La maschia solidarietà tra compagni di sventura.
Il buon cuore degli uomini duri.
“Fa sempre piacere aiutare il figlio di un amico”.
Ma vaffanculo.
Salii in auto.
Fabio fumava una sigaretta dietro l’altra e continuava ad asciugarsi la fronte.
Io ero bianco come un cadavere e bestemmiavo tra i denti.
-Certo che con te non ci si annoia mai, eh.
Povera donna, tua madre.
Cristo mi hai fatto dimagrire anche dei kg che non ho- disse Fabio.
Lo guardai e iniziammo a ridere.
Eccola l’amicizia.
Eccola.
Evvaffanculo ai luoghi comuni, ai miti dei duri dai cuori d’oro e a tutta la retorica stradaiolo delinquenziale da quattro soldi per gli sbruffoni.
Prendemmo l’autostrada per Vairano-Caianello mentre il sole tramontava riflettendo i suoi raggi in una pozza di piscio bufalino nei campi tra Santa Maria La Fossa e Carditello .

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